Ricorso  della  Regione  Abruzzo, in persona del presidente della
giunta regionale pro tempore on.le Ottaviano Del Turco, rappresentata
e  difesa  ai  sensi  della  legge  regionale  n. 9  del 2000 e della
deliberazione  autorizzativa  della Giunta regionale d'Abruzzo n. 587
del  29  maggio  2006, congiuntamente e disgiuntamente dagli avvocati
Sandro   Pasquali   e   Stefania  Valeri  dell'Avvocatura  regionale,
elettivamente  domiciliata  in  Roma  presso e nello studio dell'avv.
Fabio  Francesco Franco, via Giovanni Pierluigi da Palestrina, n. 19,
come da procura speciale apposta a margine;

    Contro  il  Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale
previa  sospensione  del  decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152,
«Norme  in  materia  ambientale», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 88   del   14   aprile  2006,  Suppl.  ordinario  n. 96/2006,  con
riferimento agli articoli:
        63 e 64, concernenti le nuove Autorita' di bacino; 101, comma
7,  concernente  gli  scarichi derivanti dalle imprese agricole; 154,
concernente   la   tariffa   del   servizio  idrico  integrato;  l55,
concernente  la  tariffa  del  servizio fognatura e depurazione; 181,
commi da 7 a 11, concernente il c.d. recupero dei rifiuti; 183, comma
1,  concernente la definizione dei rifiuti; 186, concernente le terre
e  rocce  da  scavo;  189,  comma  3,  concernente  gli  obblighi  di
comunicazione  relativi  a certe categorie di rifiuti; 214, commi 3 e
5,   concernenti   le  procedure  semplificate  per  i  rifiuti,  per
violazione  degli  artt. 76,  117,  118 Cost., del principio di leale
collaborazione, del principio di ragionevolezza, nonche' dei principi
e delle norme del diritto comunitario.

                              F a t t o

    Il  decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «Norme in materia
ambientale»,   costituisce   attuazione   della   delega  legislativa
contenuta  nella  legge  15  dicembre  2004, n. 308, pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  n. 302  del  27  dicembre  2004  -  Supplemento
ordinario n. 187, che autorizzava il Governo ad emanare entro 18 mesi
-  quindi  entro  7  luglio  2006  - uno o piu' decreti «di riordino,
coordinamento  e  integrazione  delle  disposizioni  legislative  nei
seguenti  settori  e  materie,  anche  mediante la redazione di testi
unici».
    L'art. 1,  comma  4,  della legge di delega prevede che i decreti
legislativi   debbano   essere  adottati  «sentito  il  parere  della
Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281».
    Richiama  il  comma  8  dello  stesso  articolo  il «rispetto dei
principi  e  delle  norme  comunitarie e delle competenze per materia
delle  amministrazioni  statali,  nonche'  delle  attribuzioni  delle
regioni  e degli enti locali come definite ai sensi dell'articolo 117
della  Costituzione,  della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo  31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie
e  le relative norme di attuazione delle regioni a statuto speciale e
delle  province  autonome  di Trento e di Bolzano, e del principio di
sussidiarieta».
    Lo  schema  di  decreto  e' stato approvato, a seguito dei pareri
delle  Commissioni  parlamentari,  nella  seduta  del  Consiglio  dei
ministri  del  18  novembre 2005. E' stato trasmesso alle regioni con
nota  della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 29 novembre
2005,  cui  ha  fatto  seguito una nota del successivo 7 dicembre che
avvertiva   che   gli   allegati   tecnici,   «a   causa  della  loro
voluminosita»,  venivano  resi disponibili soltanto in rete (ed anche
cio' su personale richiesta al Ministro da parte del Presidente della
Conferenza dei Presidenti delle regioni).
    Il  parere  sul decreto legislativo e' stato iscritto nell'ordine
del  giorno  della  seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre
2005.  Il  Presidente  della  Conferenza delle regioni ne chiedeva la
sospensione,  in  ragione  dell'estrema  complessita' della materia e
dell'esiguita' del tempo concesso per l'esame.
    Nella  seduta  della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di nuova richiesta.
    Nella  seduta  della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di nuova richiesta.
    Nella  seduta del 15 dicembre 2005 per divergenza delle posizioni
il  parere  non pote' essere espresso. Ciononostante il Consiglio dei
ministri,  il  19 gennaio 2006 (n. 40), approvava «in via definitiva»
il testo del decreto legislativo.
    Nella  Conferenza  unificata  del  26  gennaio 2006, i Presidenti
delle  regioni  e  delle  province  autonome,  dell'ANO,  dell'UPI  e
dell'UNCEM esprimevano parere negativo sullo schema di decreto.
    Il  15  marzo  2006  il  Presidente  della Repubblica chiedeva al
Governo  alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento
di  formazione  del  decreto  legislativo.  Il decreto legislativo e'
stato  ulteriormente  riapprovato  con alcune modifiche dal Consiglio
dei  ministri il 29 marzo 2006. E' stato dunque approvato in un testo
formalmente  (sia  pure  parzialmente)  diverso  da quello sottoposto
all'esame   delle   Commissioni   parlamentari   e  della  Conferenza
unificata.  Esso  e' stato poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14
aprile. Entrera' dunque in vigore il 29 aprile.
    La  Regione  Abruzzo contesta la conformita' a costituzione delle
disposizioni  impugnate  per  ragioni  che  attengono  da  un lato al
decreto legislativo nel suo complesso, dall'altro alle singole norme.
Nel  suo  complesso  il  decreto  appare  viziato da gravi difetti di
procedimento,   attinenti   in   particolare  alla  violazione  della
procedura  di  «leale collaborazione». Il Governo non ha rispettato i
contenuti  minimi  della  garanzia di partecipazione della Conferenza
unificata,  rendendo  consapevolmente  impossibile un informato esame
del  nuovo testo normativo. La Conferenza unificata non ha avuto modo
di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa
assunte  in  merito  al  decreto legislativo il Governo non ha aperto
alcuna  discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e
ribadito  dalla Commissione parlamentare. Inoltre - anche formalmente
il  procedimento  appare gravemente carente, essendo il testo emanato
diverso  da  quello  precedentemente  adottato  sulla base del parere
della   Commissione   parlamentare   e   sottoposto  alla  conferenza
unificata.
    Nel  merito,  il  decreto  legislativo  n. 152 del 2006 appare in
molte  parti  eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con
la  disciplina  comunitaria,  con  grave  ricaduta sulle attribuzioni
costituzionali  delle  regioni;  inoltre e' direttamente lesivo delle
competenze regionali in molte sue disposizioni.
    Esso  viola,  per  eccesso  di  delega,  la  stessa  legge delega
n. 308/2004,    stravolge   l'assetto   delle   competenze   definite
dall'art. 117  e  118  Cost.  e  dal  decreto legislativo n. 112/1998
consolidate   da   numerose   pronunce  della  Corte  costituzionale.
L'opposizione  che  le  regioni  hanno  manifestato nei confronti del
decreto  e'  quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al
rispetto  della  normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento
degli  attuali  presidi  legislativi, anche regionali, posti a tutela
dell'ambiente.  Le  disposizioni  del  decreto producono infatti - ad
avviso  delle  regioni  -  il  risultato  «di indebolire le politiche
ambientali  nel  nostro  Paese  e  la  loro coerenza con le direttive
dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei
livelli  di  tutela  dell'ambiente  e della salute a danno di tutti i
cittadini   senza,   peraltro,   che  a  questo  possa  corrispondere
l'auspicata  semplificazione delle procedure e dei processi attuativi
per  gli  operatori e le imprese». Inoltre le nuove norme determinano
«la  totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in
campo   ambientale  data  l'incompatibilita'  delle  norme  regionali
vigenti con quelle dello schema di decreto».
    Le   norme  oggetto  del  presente  ricorso  hanno,  un'efficacia
immediata:  talvolta  prevista  con  un  termine preciso dallo stesso
decreto, ma comunque in ogni caso ravvicinata.
    Cosi',  per esempio, l'art. 63 sopprime «a far data dal 30 aprile
2006»  le  Autorita'  di  bacino  istituite  dalla legge n. 183/1989,
trasferendone   le  funzioni  alle  istituende  Autorita'  di  bacino
distrettuale,  senza  precisare  quale  sia  il  regime  transitorio,
rinviato  ad un atto amministrativo del Governo che ha un solo giorno
per essere emanato!
    In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il decreto
legislativo  introduce  una  disciplina  innovativa  che ha l'effetto
immediato  di  smantellare  l'attuale  normativa ambientale, rendendo
meno  rigorosa  la  normativa  vigente  e favorendo comportamenti che
attualmente,  anche  per  precisa  richiesta delle norme comunitarie,
costituirebbero un illecito amministrativo o penale.
    E'  contro  queste disposizioni che muove l'impugnazione proposta
nel presente ricorso, rivolta, come detto, avverso le norme che hanno
una  decorrenza  immediata  e  rischiano  di  provocare danni gravi e
irreparabili   all'interesse   pubblico  alla  tutela  dell'ambiente,
all'ordinamento  giuridico  nazionale  e regionale nonche' ai diritti
dei cittadini alla salute e alla salubrita' dell'ambiente: per queste
ragioni  la  regione  ricorrente  avanza anche istanza di sospensione
dell'esecuzione    delle   disposizioni   stesse,   in   applicazione
dell'art. 35  della  legge  n. 87/1953,  come modificato dall'art. 9,
comma 4, della legge n. 131/2003.

                            D i r i t t o

    A)  Illegittimita'  costituzionale degli artt. 63, comma 3, e 64,
relativi  all'Autorita'  di  bacino,  per  violazione degli art. 117,
comma terzo, 118 e 76 della Costituzione.
    1) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni
in  macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con
le nuove Autorita' di distretto.
    L'art. 63,  comma  3,  dispone:  «Le autorita' di bacino previste
dalla  legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
Bacino Distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto». Il
riferimento  generico  alla  «terza  parte» (alla quale in realta' la
disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita'
distrettuali  sono  istituite  dal  comma 1 dello stesso articolo, in
corrispondenza  degli  otto  distretti  idrografici  individuati  nel
successivo art. 64.
    Tale  norma  riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la
legge  n. 183/1989  istituiva,  suddividendoli  in  bacini nazionali,
interregionali  e  regionali.  Tra  gli  otto  distretti  figurano il
Distretto  della  Sardegna,  quello  della  Sicilia,  ed il Distretto
idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni.
    L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente
nei  rimanenti  cinque  distretti,  vagamente  corrispondenti a delle
macro-regioni.
    Questa   suddivisione   e'   decisa   «dall'alto»   senza  alcuna
partecipazione  alla decisione da parte delle regioni. Gli organi dei
nuovi   distretti  sono  individuati  dall'art. 63,  comma  2,  nella
Conferenza  istituzionale  permanente, nel Segretario generale, nella
Segreteria tecnico-operativa e nella Conferenza operativa di servizi.
La  stessa  disposizione  rinvia  la  definizione dei criteri e delle
modalita' per l'attribuzione o il trasferimento del personale e delle
risorse  patrimoniali  e finanziarie ad un decreto del Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  da  emanarsi  su  proposta  del  Ministro
dell'ambiente  e  della  tutela  del  territorio  di  concerto con il
Ministro  dell'economia  e  delle  finanze  e  con il Ministro per la
funzione  pubblica, «sentita la Conferenza Permanente Stato regioni»,
entro  trenta  giorni  dalla  data  di entrata in vigore del decreto.
Ancora, lo stesso d.P.C.m. «disciplina il trasferimento di funzioni e
regolamenta il periodo transitorio».
    Le  disposizioni  impugnate appaiono da un lato gravemente lesive
delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive
dell'oggetto  e  dei principi e criteri direttivi della delega. Sotto
il  primo  profilo  va  osservato  che  la  Sezione  in  cui  trovano
collocazione  le  disposizioni  impugnate evoca con chiarezza sin dal
titolo  -  «Norme  in  materia  di  difesa  del  suolo  e  lotta alla
desertificazione» - che la disciplina contenuta insiste sulla materia
«governo del territorio», che l'art. 117, comma terzo, Cost., assegna
alla competenza concorrente.
    Come  codesta  ecc.ma  Corte ha ripetutamente affermato che nelle
materie  concorrenti  lo  Stato  puo'  intervenire esclusivamente con
norme  legislative  di  principio,  e non puo' riservare a se' e alle
proprie  strutture  decentrate  funzioni amministrative che non siano
giustificate  dalla «chiamata in sussidiarieta»; e che, anche qualora
l'attrazione   al   centro   di   funzioni  «unitarie»  possa  essere
giustificato  in  nome  del  principio di sussidiarieta' o qualora il
particolare  intreccio  di  competenze (coinvolgente anche competenze
esclusive dello Stato, ex art. 117, comma secondo, Cost.) consentisse
allo   Stato   di   esercitare  determinate  funzioni  amministrative
incidenti  in materie di competenza regionale, tuttavia cio' non puo'
avvenire  che  nel  rispetto  del  principio di leale collaborazione,
inteso   in   senso   «forte»   (e  quindi  attraverso  procedure  di
codecisione,    non    semplicemente    «sentendo»    la   Conferenza
Stato-regioni), e del principio di proporzionalita'.
    Commisurate   a  tali  parametri,  le  norme  che  sopprimono  le
Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si
rivelano  affette  da  illegittimita'  costituzionale  sotto  diversi
profili.
    In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica autorita' di bacini
che   non   hanno   in   realta'   alcuna  correlazione  realizza  un
accentramento  privo  di  qualunque  giustificazione  ed espropria le
regioni  delle  proprie  naturali competenze, in violazione sia della
competenza legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di
sussidiarieta'. In secondo luogo, i distretti stessi sono configurati
come enti amministrativi sovraregionali, distorcendo completamente la
fisionomia  delle  Autorita'  di  bacino,  cosi' come impostate dalla
legge  n. l83/1989.  Queste infatti erano modellate con riferimento a
dimensioni  idrogeografiche  «naturali»,  che  ne  giustificavano  la
competenza   pianificatoria   e   decisionale,  mentre  la  Autorita'
distrettuali  istituite  dalle  disposizioni  impugnate rappresentano
delle   semplici   articolazioni   burocratico   amministrative,  che
costituiscono  in  realta'  una  sorta  di amministrazione decentrata
dello  Stato  in  cui  la  centralizzazione  amministrativa e' appena
temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni.
    Si  consideri  che,  ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni
erano   (sono)   contitolari   del   governo   dei  bacini  nazionali
(configurati  come  organismi a partecipazione mista Stato-regioni) e
titolari  esclusive  delle  funzioni  relative  ai bacini regionali e
interregionali.  Oggi, all'opposto, rappresentanti delle regioni sono
presenti  in  netta minoranza nel fondamentale organo decisionale, la
Conferenza  istituzionale  permanente (che nomina anche il Segretario
generale), nonche' nella Conferenza operativa, le cui competenze sono
peraltro piuttosto oscure.
    La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente
enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in
cui  il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre
quello  dei  rappresentanti  delle  regioni dipende da quante regioni
sono  concretamente  coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette),
appare  espropriare  le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle
loro prerogative.
    Infine,  se  pure  fosse  giustificata  secondo  il  principio di
sussidiarieta'  la (suddivisione del territorio in distretti privi di
corrispondenza  con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni
non   sono   state   chiamate   ad   esercitare   alcun  ruolo  nella
determinazione  dell'ambito  dei distretti. Va considerato che, sotto
questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed
astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza
regionale.   Secondo  la  stessa  giurisprudenza  di  codesta  Corte,
l'assunzione  in  legge  di decisioni concrete non puo' privare delle
garanzie  previste  dalla  Costituzione: il che vale ugualmente, ed a
maggiore  ragione,  per le competenze delle regioni, alle quali viene
cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione.
    2)  Specifica  illegittimita'  del potere normativo attribuito al
decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3.
    Si  deve  poi  specificamente evidenziare che, come detto, che al
d.P.C.m.  e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63,
commi 2 e 3).
    Innanzitutto,    si    tratta    di    un'attribuzione   connessa
all'accorpamento  dei  distretti,  illegittima  per le stesse ragioni
sopra esposte.
    Se  essa  potesse  essere  giustificata  in nome del principio di
sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato
d'intesa   con   la  Conferenza  Stato-regioni,  la  quale  non  puo'
semplicemente essere «sentita».
    3) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di
bacino  a  partire  dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' di
dettare entro tale termine la disciplina transitoria.
    Inoltre,  tale  potere  normativo risulta dover essere esercitato
... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma
autorizzativa  del  decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore,
ma   neppure   dopo  il  30  aprile,  perche'  le  norme  transitorie
interverrebbero  ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi
del  comma  3.  Dietro tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu'
sostanziale  illegittimita'  della  norma che prevede la soppressione
delle  Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano
essere  definite  le  fasi  di  transizione, se pure il nuovo sistema
fosse  legittimo.  Da  qui il pericolo di un irreparabile pregiudizio
all'interesse  pubblico,  ed  il  rischio  di un pregiudizio grave ed
irreparabile  per  i  diritti  dei  cittadini,  che induce la Regione
Abruzzo  a  chiedere  la sospensione della esecuzione della norma: la
soppressione  delle  Autorita'  di  bacino  decorre  dallo  stesso 30
aprile,  per  cui  e'  evidente  che  l'emanazione  di  una normativa
transitoria diviene pressoche' impossibile, dato che l'emanazione del
d.P.C.m.   e'   soggetta   ad   una  procedura  complessa,  descritta
dall'art. 63,  comma  2, nel corso della quale deve essere sentita la
Conferenza Permanente Stato-regioni.
    A  prescindere  dalla  gia'  lamentata insufficienza di una forma
cosi' tenue di «cooperazione», vi e' il rischio - ma si dovrebbe dire
la  certezza  -  che  la  soppressione  immediata  delle Autorita' di
bacino,  in  assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo
di  incertezza  sulle  competenze ad emanare gli atti e a svolgere le
funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le Autorita' svolgono
da  tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in
cura.
    Attualmente  le  Autorita'  di bacino regionali operano in base a
diverse  leggi della Regione Abruzzo: ll.rr. nn. 81 del 1998 e 43 del
2001. Esse verrebbero abrogate a decorrere dal termine del 30 aprile,
paralizzando  le  attivita'  delle  Autorita'  di bacino. Proprio per
evitare  che  insorgano  situazioni  di  paralisi amministrativa a di
grave rottura dell'ordinamento costituzionale, che si rifletterebbero
immediatamente  sull'esercizio delle funzioni attribuite alla regione
e  sulla  tutela degli interessi urbanistici, ambientali e di governo
del  territorio che la regione ha in cura, si chiede a codesta ecc.ma
Corte  di  intervenire  in  fase  cautelare  ordinando la sospensione
dell'esecuzione  di  queste  disposizioni,  in  attesa del definitivo
giudizio  sulla loro illegittimita' costituzionale, che la ricorrente
regione confida di avere illustrato.
    4)  Illegittimita' costituzionale degli articoli 63 e 64 sotto il
profilo della violazione della legge di delega.
    Va  altresi'  evidenziata  l'eccesso  di  delega in relazione sia
all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla
legge di delega.
    Infatti,  quanto  all'oggetto,  va  sottolineato  che  la dizione
«riordino,    coordinamento   e   integrazione   delle   disposizioni
legislative...,  anche mediante la redazione di testi unici» (art. 1,
comma 1, legge n. 308/2004), fa riferimento alle classifiche funzioni
di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione
della   legislazione   vigente.   Come   codesta   ecc.ma   Corte  ha
sistematicamente  ripetuto  (cfr.  da  ultimo  le sent. nn. 303/2005,
66/2005,  280/2004),  «la  revisione  e  il  riordino, ove comportino
l'introduzione  di  norme  aventi  contenuto innovativo rispetto alla
disciplina previgente, necessitano della indicazione di principi e di
criteri   direttivi   idonei   a   circoscrivere  le  diverse  scelte
discrezionali  dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo'
anche  mancare  allorche'  le nuove disposizioni abbiano carattere di
sostanziale conferma delle precedenti» (sent. n. 66/2005, che cita il
precedente  della  sent.  n. 354/1998).  Nel  presente caso l'oggetto
della  delega  prevede solo il «riordino», neppure la «revisione» cui
la  massima espressa dalla giurisprudenza costituzionale va applicata
con ancora maggiore rigore.
    Accanto  a  cio',  nel definire i contorni del potere legislativo
delegato,  la  legge  n. 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni
altro  criterio  «il  rispetto...  delle competenze per materia delle
amministrazioni  statali,  nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli  enti  locali,  come  definite ai sensi dell'articolo 117 della
Costituzione,  della  legge  15  marzo  1997,  n. 59,  e  del decreto
legislativo  31  marzo  1998,  n. 112»:  e'  percio'  evidente che il
legislatore  delegato  era  tenuto  a  non modificare il quadro delle
attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta
gravemente  compromesso  dalle  scelte  compiute  dalle  disposizioni
censurate.
    D'altro  canto,  nessuno  dei  «principi e criteri direttivi» poi
elencati  all'art. 1,  comma  8, autorizza un'innovione legislativa e
amministrativa  come  quella  apportata dalla sovversione del sistema
delle  Autorita'  di  bacino. Tra i principi e criteri direttivi piu'
specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione: «e)
rimuovere  i  problemi  di  carattere  organizzativo,  procedurale  e
finanziario  che ostacolino il conseguimento della piena operativita'
degli  organi  amministrativi  e  tecnici  preposti  alla tutela e al
risanamento  del suolo e del sottosuolo, superando la sovrapposizione
tra  i diversi piani settoriali di rilievo ambientale e coordinandoli
con  i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le competenze svolti
dagli organismi a composizione mista statale e regionale; adeguare la
disciplina    sostanziale    e    procedurale    dell'attivita'    di
pianificazione,   programmazione   e   attuazione  di  interventi  di
risanamento  idrogeologico  del territorio e della messa in sicurezza
delle  situazioni  a  rischio; prevedere meccanismi premiali a favore
dei  proprietari  delle  zone agricole e dei boschi che investono per
prevenire  fenomeni  di  dissesto  idrogeologico,  nel rispetto delle
linee   direttrici  del  piano  di  bacino;  adeguare  la  disciplina
sostanziale   e   procedurale  della  normativa  e  delle  iniziative
finalizzate   a   combattere   la  desertificazione,  anche  mediante
l'individuazione    di   programmi   utili   a   garantire   maggiore
disponibilita'   della  risorsa  idrica  e  il  riuso  della  stessa;
semplificare   il  procedimento  di  adozione  e  approvazione  degli
strumenti  di  pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti  i  soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
    Come  si  vede,  la  legge  di  delega  presuppone  piuttosto  il
mantenimento  ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi
esistenti,   fondati   sull'unita'   dei  bacini  idrografici,  senza
prevederne  o  consentirne  affatto la soppressione e la sostituzione
con  un  sistema  radicalmente  diverso,  ispirato  a divergenti, che
avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati.
    La  legge  di  delega,  dunque,  non  consente  una  legislazione
delegata  che  sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla
legge  n. 183/1989  e  lo sostituisce con un sistema centralistico di
gestione  delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per
lo   piu'   causando  un  periodo  di  grave  incertezza  nella  fase
transitoria  esautorando  le  regioni,  sostituendo  il sistema della
Autorita'  di  bacino con una «zonizzazione» del territorio nazionale
dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi
collegiali inediti e sperequanti.
    Si   consideri  che  la  violazione  della  legge  di  delega  si
identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali,
e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile.
    B)  Illegittimita'  costituzionale degli artt. 181, commi 7 - 11,
183,  comma  1,  lett.  g), h), m), 186, 189, comma 3, per violazione
degli artt. 117, commi primo, terzo e quinto, 118, e 76 Cost.
    La  Parte  quarta  del  decreto  legislativo, che detta «Norme in
materia  di  gestione  dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati»,
reca  ad  avviso  della  ricorrente regione numerose deviazioni dagli
obblighi  assunti  in  sede comunitaria, che la regione si riserva di
censurare  in  un  successivo  ricorso, la' dove incidano anche sulle
attribuzioni  regionali. Nel presente ricorso urgente, l'impugnazione
e'  invece  circoscritta alle sole disposizioni che producono effetti
immediati   pregiudizievoli   per   le   attribuzioni   regionali   e
costituiscono  un  pericolo  grave  e  immediato  per  gli  interessi
pubblici che la regione ha in cura.
    1)  Illegittimita' costituzionale dell'art. 181, commi da 7 a 11,
e  dell'art. 183,  (comma  1,  lett.  g)  h),  m),  n),  q),  ed  u).
Illegittimita'  costituzionale  per  le stesse ragioni dell'art. 214,
commi 3 e 5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 186.
    L'art. 181,  comma  settimo, prevede che «soggetti economici» non
meglio   identificati  (ma  potenzialmente  comprensivi  di  chiunque
gestisca   attivita'   d'impresa)  o  le  associazioni  di  categoria
rappresentative  dei  settori  interessati,  anche con riferimento ad
interi  settori  economici  e  produttivi,  possano «stipulare con il
Ministro  dell'ambiente  e  della  tutela  del territorio... appositi
accordi  di  programma  ...  per  definire  i  metodi di recupero dei
rifiuti  destinati  all'ottenimento  di  materie prime secondarie, di
combustibili  o  di  prodotti».  Secondo  la stessa disposizione tali
accordi «fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la
raccolta,  per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per
la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con
particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere
di  commercio,  e  per i controlli delle caratteristiche e i relativi
metodi  di  prova»;  gli accordi «fissano altresi' le caratteristiche
delle  materie  prime  secondarie,  dei  combustibili  o dei prodotti
ottenuti,  nonche'  le  modalita' per assicurare in ogni caso la loro
tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego».
I   commi   successivi,  dall'8  all'11,  disciplinano  le  modalita'
procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di
tali  accordi  di  programma. Le parole utilizzate dalla disposizione
ora  richiamata trovano il loro significato nelle definizioni dettate
dall'art. 183, comma primo. In particolare, vengono in considerazione
le  definizioni  dei  termini:  g  («smaltimento»); h («recupero»); m
(«deposito  temporaneo»);  n  («sottoprodotto»);  q  («materia  prima
secondaria»), definita con riferimento alle caratteristiche stabilite
ai  sensi  dell'articolo  181);  u  («materia  prima  secondaria  per
attivita'   siderurgiche  e  metallurgiche»),  al  cui  proposito  la
disciplina  sara'  integrata da un decreto ministeriale «senza valore
regolamentare).  Tali  disposizioni, considerate nella loro sostanza,
operano  una  deregolamentazione  «mascherata»  del settore, in pieno
contrasto  con  le  normative  europee,  piu'  volte  ribadite  dalle
decisioni della Corte di giustizia.
    In  particolare,  si  introducono  definizioni  di  smaltimento e
recupero   non  completamente  conformi  con  quanto  indicato  nella
direttiva  75/442/CEE  (art. 1, lett. e) e f), nonche' definizioni di
sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le
indicazioni  fornite  dalle sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze   C-418/97   e  C419/97,  «Arco»;  C-9/00  «Palin  Granir»;
C-114/01,   «AvestaPolarit   Chrome»;   e  in  particolare  C-457/02,
«Niselli».  Viene  infatti  riproposto  ancora una volta «l'approccio
normativo  italiano», consistente nella sottrazione dei sottoprodotti
e  delle  cosiddette  materie  prime  secondarie  alla disciplina dei
rifiuti.  Tale «approccio» e gia' stato oggetto di una prima sentenza
di  condanna  a  seguito  di procedura d'infrazione che ha colpito il
d.m.  5  febbraio  1998,  che invece l'art. 181, comma 6, del decreto
legislativo  impugnato  mantiene transitoriamente ma illegittimamente
in  vigore  in  attesa  di un nuovo decreto ministeriale che fissi le
caratteristiche  dei  materiali  ottenuti come materie secondarie: la
sentenza  7 ottobre 2004 (C- 103/02) ha espressamente sancito che «la
Repubblica  italiana,  non  avendo  stabilito  nel decreto 5 febbraio
1998,  sull'individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle
procedure  semplificate  di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del
decreto  legislativo  5  febbraio  1997,  n. 22, quantita' massime di
rifiuti,  per tipo di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero
in  regime  di  dispensa  dall'autorizzazione,  e'  venuta  meno agli
obblighi  che  ad  essa incombono in forza degli artt. 10 e 11, n. 1,
della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai
rifiuti,  come  modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991,
91/156/CEE». Ulteriore sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in
sede   di   rinvio  pregiudiziale,  dalla  Corte  di  giustizia,  con
particolare   riferimento   all'art. 14   della   legge   n. 178/2002
(C-457/02).
    La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che
i  sottoprodotti e le MPS vengono si' inclusi nella «definizione» dei
rifiuti,  ma  in  realta'  la norma che cosi' li classifica restringe
fortemente  l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che
«non  sono  soggetti  alle  disposizioni di cui alla parte quarta del
presente  decreto  i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia  obbligata  a  disfarsi  e  non  abbia  deciso  di disfarsi ed in
particolare...»),   al   punto   di  costituire  una  vasta  area  di
sottoprodotti  esentati  dalla disciplina, pur senza includerli tra i
materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione
del  decreto,  ai  sensi  del  successivo  art. 185.  E'  un evidente
artifizio  formale  teso  ad evitare che appaia evidente il conflitto
con le norme europee.
    In   realta',   attraverso  la  previsione  di  appositi  decreti
ministeriali  e  degli  accordi  di  programma  di  cui all'art. 181,
vengono   sottratti   al   regime   dei   rifiuti,  e  alle  relative
autorizzazioni,  adempimenti  e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati.
    Anche  la  Corte  di  cassazione,  con sentenza n. 47269/05 e con
ordinanza  n. 1414/06, ha appena ora sancito invece che la nozione di
rifiuto  -  in  coerenza  con  la normativa comunitaria - deve essere
intesa  in  senso  estensivo  (e  non  restrittivo  quale  e'  invece
l'approccio della pregressa normativa italiana, ripreso in modo ancor
piu'  evidente  dal  decreto  delegato),  riportandola  percio'  alla
disciplina dei sottoprodotti e materie prime secondarie dettata dalle
disposizioni    comunitarie,    cosi'    come    interpretate   dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia.
    Con  il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono
in  realta'  limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area
di   applicazione   della  disciplina  dei  rifiuti  ed  eliminati  i
controlli,  quale  risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze
soggette    a    regolamentazione    restrittiva,    vuoi    di   una
«deregolamentazione»  della  disciplina  dei  metodi  di recupero dei
rifiuti, sostituita da procedure «contrattate».
    Il  ricorso  allo  strumento  di accordi e contratti di programma
previsti  dall'art. 181  eccede  i  limiti  propri  dell'istituto, in
quanto   si  sostituisce  una  «fonte»  contrattata  alla  disciplina
normativa,   alterando   la   gerarchia   delle  fonti  del  diritto.
Sostituendo  alla  disciplina  generale  una  serie  indeterminata di
accordi  applicabili  soltanto agli aderenti, si ledono i principi di
certezza  del  diritto,  uguaglianza, generalita' e astrattezza delle
norme.
    Davvero  paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7,
richiami  (rinviando  al  precedente  comma 5) la comunicazione della
Commissione  al  Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle
regioni,  Com  (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale «modello» cui si
devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti,
come  si  legge  nella  comunicazione,  di  accordi  «in cui le parti
interessate  si  impegnano  ad  ottenere una riduzione dei livelli di
inquinamento,  come  sancito  dal  diritto ambientale, o obiettivi di
carattere ambientale, di cui all'articolo 174 del trattato», quali ad
esempio   gli   accordi  comunitari  in  materia  ambientale  con  le
associazioni  di  produttori  di  automobili  europea,  giapponese  e
coreana  sulla  riduzione progressiva delle emissioni di C02 prodotte
dalle autovetture.
    Gli  accordi  previsti  dalle  disposizioni  censurate, diretti a
«deregolamentare»  e  «privatizzare»  1a  disciplina dei rifiuti, non
corrispondono  affatto  a  quanto  ipotizzato  (ed  auspicato)  nella
comunicazione  della  Commissione,  ossia  alla  possibilita'  che  -
tramite  moduli  convenzionali  e  non  «imposti»  -  si  raggiungano
obiettivi  ambientali  ulteriori rispetto a quelli gia' fissati dalle
regole comunitarie.
    Il   contrasto  con  le  direttive  75/442/CEE  e  91/156/CEE  si
manifesta  anche nel fatto che le norme europee non consentono che le
attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime
autorizzatorio.  Infatti l'art. 11 della direttiva 75/442/CEE prevede
che la dispensa dall'autorizzazione sia possibile solo fissando norme
generali  che  fissano i tipi e le quantita' di rifiuti (va ricordato
che  proprio  per  tale  motivo  lo  Stato italiano e' incorso in una
procedura  di  infrazione  comunitaria  per il citato d.m. 5 febbraio
1998).
    Il  decreto  legislativo  impugnato fa al contrario venir meno il
quadro   normativo   generale   richiesto  dalle  direttive  europee,
sostituendolo  con  una  vasta contrattualizzazione della disciplina;
mentre,   per   altro  verso,  la  normativa  europea  richiede,  per
«escludere»  un  rifiuto  dal  campo  di applicazione della direttiva
75/442,  che  (eccezion  fatta  per  gli effluenti gassosi immessi in
atmosfera  per  cui  vale  l'esenzione  diretta)  le  esenzioni siano
ammissibili soltanto se disciplinate da specifica norma speciale cio'
che  non avviene con la disciplina generale di esenzione che le norme
impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti.
    Per le stesse ragioni ora illustrate risultano costituzionalmente
illegittimi i commi 3 e 5 dell'art. 214, nella parte in cui ammettono
rispettivamente  lo  strumento  dell'accordo,  «deregolatorio» per le
procedure semplificate di smaltimento di rifiuti e richiamano il d.m.
5  febbraio  1988 per la fase transitoria, in attesa della fissazione
delle nuove regole.
    L'art.  186  introduce  inoltre una ipotesi generale di esenzione
per  le  terre  e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della
pietra  destinati  all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti,
ecc.,  i  quali,  secondo  la citata disposizione, «non costituiscono
rifiuti  e  sono,  percio', esclusi dall'ambito di applicazione della
parte  quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando
contaminati,  durante  il  ciclo  produttivo,  da sostanze inquinanti
derivanti  dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano   utilizzati,  senza  trasformazioni  preliminari,  secondo  le
modalita'  previste  nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale   ovvero,   qualora  il  progetto  non  sia  sottoposto  a
valutazione  di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel
progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio'
sia  espressamente  previsto, previo parere delle Agenzie regionali e
delle  province  autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche'
la   composizione   media   dell'intera   massa   non   presenti  una
concentrazione  di  inquinanti  superiore  ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3».
    Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e'
evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di
fuori del quadro normativo europeo. Basta ricordare che una specifica
procedura d'infrazione e' stata avviata contro la Repubblica italiana
a causa di una disposizione analoga contenuta nella legge n. 443/2001
(art. l, comma 15).
    Le  norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate
norme   comunitarie,   e,  per  cio'  stesso,  con  l'art. 11  e  con
l'art. 117, comma primo, Cost.; esse contrastano inoltre con la legge
di  delega  - e quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa
tra  i  criteri  direttivi  (art. 1,  comma  8)  la «piena e coerente
attuazione  delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati
livelli  di  tutela  dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla
competitivita'  dei  sistemi  territoriali  e delle imprese, evitando
fenomeni   di   distorsione   della   concorrenza»   (lett.   e),   e
l'«affermazione   dei   principi   comunitari   di   prevenzione,  di
precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni
ambientali  e  del  principio  "chi  inquina  paga"»  (lett. f). Tali
illegittimita'  si  ripercuotono,  ovviamente,  in  modo lesivo sulle
competenze   costituzionali   della  regione  in  materia  di  tutela
dell'ambiente,   tutela   della  salute  e  governo  del  territorio,
pregiudicando  il  corretto  svolgimento  delle funzioni regionali in
quelle materie, come si illustra piu' ampiamente nel punto seguente.
    2)  Illegittimita'  costituzionale  delle  stesse norme di cui al
punto 1) per diretta violazione delle competenze regionali.
    Le  stesse  norme  censurate  al  punto  precedente costituiscono
altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali.
    La   materia   «rifiuti»  si  colloca  in  una  zona  in  cui  si
sovrappongono  gli  interessi  ambientali  con  quelli  di tutela del
territorio,  nonche'  della  tutela igienico-sanitaria e di sicurezza
della  popolazione.  Ma  anche  a  ritenere  che, in applicazione del
«criterio  di  prevalenza»  elaborato  dalla giurisprudenza di questa
ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in
base  alla  competenza  riconosciutagli dall'art. 117, comma 2, lett.
s),  cio'  non significa che la legge statale possa intervenire senza
precisi  limiti. La legislazione vigente - a partire dal ed. «decreto
Ronchi»  (d.lgs.  n. 22/1997)  e dall'art. 85 del d.lgs. n. 112/1998,
che espressamente lo richiama - ha riconosciuto il ruolo fondamentale
delle   regioni   nell'attuazione  del  quadro  normativo  nazionale,
finalmente  riportato  ad  una  disciplina  organica  e  unitaria, in
considerazione  della  «vocazione» regionale -in base al principio di
sussidiarieta'  -  sia  nella  politica di tutela del territorio, sia
nell'applicazione in loco della disciplina generale, organizzando gli
apparati  e le procedure amministrative necessarie e «incrociando» la
disciplina  di  settore  con  il  complesso  fascio  delle competenze
regionali, spettanti a pieno titolo o quali potesta' concorrenti, che
incidono   sull'ambiente   (come  e'  pacifico  nella  giurisprudenza
costituzionale sin dalla sent. n. 407/2002).
    Va  da  se'  che  rimane  allo  Stato  il  potere  legislativo di
disciplinare  in  via  generale  la «materia» e i suoi settori, cosi'
come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino
un  nuovo  equilibrio  tra gli interessi costituzionali di protezione
dell'ambiente,  da  un  lato,  e  la  liberta' d'iniziativa economica
dall'altro (sentt. nn. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la
riforma  legislativa  operata  dal  legislatore  statale  - incidendo
profondamente  nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa
ha  gia'  esercitato  disciplinandole  con  legge  e con strumenti di
pianificazione  generale  e  particolare  (cfr. la l.r. n. 27/1994, e
successive   modifiche,   nonche'   il  Piano  di  azione  ambientale
2004-2006)  -  risulta  viziata  sia per violazione della delega (che
vincola    il   legislatore   delegato   al   rispetto   dell'assetto
amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto
con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il
ricorso  per  illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse
essere   applicata,   ne  risulterebbe  sconvolto  l'attento  assetto
normativo  e  amministrativo  disegnato dalla legislazione regionale,
che  verrebbe  in  molte  parti  abrogata  dall'atto  legislativo  in
questione,  creando  uno  stato  di  grave  precarieta' normativa. Va
infatti  sottolineato  che  la regione, a tenore dell'art. 117, comma
quinto,  Cost.,  ha  il compito di dare attuazione diretta alle norme
comunitarie:  per  principio  fondamentale  del  diritto comunitario,
confortato  dalla  sent.  n. 170/1984 di codesta Corte, la supremazia
del  diritto comunitario va assicurata dai soggetti dell'applicazione
del  diritto  anche  attraverso  la  «non  applicazione»  delle norme
legislative  interne  contrastanti  con  le  norme  comunitarie  self
executing.  La  conseguenza  di  queste  premesse  e'  che la regione
Abruzzo  sara' tenuta - per un preciso obbligo giuridico, dunque, ora
rafforzato  dall'art. 117,  comma  primo, Cost. - a non applicare nel
proprio  territorio  le  norme del decreto impugnato che risultino in
contrasto  con  le  norme  «ad  effetto  diretto»  poste  dal diritto
comunitario derivato e dalle sentenze della Corte di giustizia che di
esso  forniscono l'interpretazione (cfr. sent. n. 389/1989 di codesta
ecc.ma   Corte).   Il   risultato,   quindi,  non  sara'  affatto  la
«semplificazione» promessa dalle disposizioni impugnate, ma uno stato
di   gravissima  incertezza  normativa,  non  privo  di  preoccupanti
riflessi  sulla  repressione  penale dei reati ambientali legati alla
disciplina  dei  rifiuti,  con  conseguente  contenzioso  destinato a
coinvolgere  nuovamente - come gia' capitato nel «caso Niselli» - sia
la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale.
    Tutto  cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli
interessi  pubblici  alla  tutela dell'ambiente, della salute e della
sicurezza  pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore
e  aggirate  le  definizioni  e  le procedure fissate dalla normativa
comunitaria,  diventera'  difficile  e  talvolta  impossibile  per le
strutture   regionali  rintracciare  le  sostanze  derubricate  dalle
disposizioni   impugnate.   Con   l'entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo   si  produrra'  infatti  una  derubricazione  di  talune
categorie  di  rifiuti,  i quali non saranno piu' considerati tali ma
verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo
in  tal  modo  sottratti  al regime vincolistico e garantistico della
normativa  sui rifiuti. La gravita' e l'irreparabilita' del danno per
gli  interessi  pubblici e per la salute e la sicurezza dei cittadini
appaiono percio' innegabili.
    3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3.
    Considerazioni  in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai
punti  1)  e  2)  valgono  per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda
l'obbligo  di  comunicare  annualmente  alle  Camere  di commercio le
quantita'  e  le  caratteristiche  qualitative dei rifiuti oggetto di
attivita'  di  raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
(ed.   MUD,   ossia   il  «modello  unico»,  introdotto  dalla  legge
n. 70/1994).  L'ambito  di  applicazione  di  tale  obbligo viene ora
delimitato  restrittivamente,  esentandone  le imprese e gli enti che
producono  rifiuti  non  pericolosi.  Si produrra' di conseguenza una
preoccupante  perdita  di informazioni per quanto riguarda molteplici
categorie  di  rifiuti  che  potranno  circolare  liberamente,  senza
consentire  alle strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali
di  conoscere  i  dati  relativi  alla  produzione  che  sono base di
conoscenza  per  seguire  il  percorso dei rifiuti. Alla gravita' del
danno  si  aggiunge la sua imminenza: infatti, entro il 30 aprile - e
quindi il giorno dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo - i
produttori  di  rifiuti  non  pericolosi  devono  predisporre il MUD;
l'entrata  in  vigore  della  disposizione censurata produrra' quindi
l'immediato effetto di esentare i soggetti precedentemente gravati da
tale obbligo per l'anno 2006.
    C)  Illegittimita'  costituzionale  dell'art. 101,  comma  7, per
violazione degli artt. 117, comma terzo, e 76 Cost.
    L'art. 101,  comma  7, derogando ad un criterio consolidato da un
trentennio,  assimila  alle  acque  reflue  domestiche  gli  scarichi
derivanti dalle imprese agricole, includendo in esse anche quelle che
svolgono  attivita'  di  trasformazione o valorizzazione dei prodotti
agricoli,   purche'   tale   attivita',  inserita  con  carattere  di
normalita'   e  complementarieta'  funzionale  nel  ciclo  produttivo
aziendale,  riguardi  materia  prima  lavorata  proveniente in misura
prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia
a qualunque titolo la disponibilita'.
    Si   tratta   di   attivita'   i  cui  reflui  possono  avere  un
considerevole  impatto  ambientale:  si  considerino,  ad esempio, le
cantine vinicole o i caseifici che producono su scala industriale.
    In  precedenza  il decreto legislativo n. 152/1999 («Disposizioni
sulla  tutela  delle  acque  dall'inquinamento  e  recepimento  della
direttiva  91/271/CEE  concernente  il trattamento delle acque reflue
urbane  e  della  direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle
acque  dall'inquinamento  provocato  dai nitrati provenienti da fonti
agricole») fissava all'art. 28, comma 7, lett. e), un criterio certo,
che  imponeva  un preciso rapporto minimo tra materia prima derivante
dalla  propria  produzione  e  materia  prima derivante da produzioni
altrui:  ora,  la disposizione impugnata sostituisce il limite minimo
di  2/3 con il concetto elastico di «misura prevalente». Si tratta di
un  criterio  discrezionale,  che  nella  pratica  corrente favorisce
comportamenti  della  P.A.  che  possono  determinare  disparita'  di
trattamento.
    In  mancanza  di criteri certi e verificabili, l'incoerente o non
appropriata classificazione degli scarichi delle imprese agricole che
esercitano  anche  attivita' di trasformazione dei prodotti agricoli,
di  norma  caratterizzati  da  carichi  inquinanti elevati, determina
l'applicazione  di  livelli di trattamento meno rigorosi, in quanto -
ad  esempio  -  i  reflui  vengano  classificati domestici invece che
industriali:  con  conseguenti effetti negativi sulle caratteristiche
di  qualita'  delle  acque  del  corpo recettore (ad esempio il corso
d'acqua),  il  mancato  raggiungimento  degli  obiettivi  di qualita'
fissati dalle norme comunitarie e il conseguente danno all'ambiente.
    La  disposizione  impugnata  provoca  dunque  una  riduzione  del
livello  di  tutela  delle  acque  e contraddice percio' i principi e
criteri   direttivi   fissati  dalla  legge  di  delega:  quello  del
«miglioramento  della  qualita' dell'ambiente, della protezione della
salute  umana,  dell'utilizzazione  accorta e razionale delle risorse
naturali»  (lett.  a),  dell'art. 1,  comma  8),  ma anche quello del
«pianificare, programmare e attuare interventi diretti a garantire la
tutela  e il risanamento dei corpi idrici superficiali e sotterranei,
previa ricognizione degli stessi» (lett. b) del successivo comma 9).
    Essa  inoltre incide negativamente sulle funzioni attribuite alla
regione  gia' dalla legislazione di settore e dal decreto legislativo
n. 112/1998,  e  cio'  ancora una volta si riflette in violazione del
preciso  vincolo  posto  dalla legge di delega. Inoltre - e da questa
considerazione  trae origine la richiesta di sospenderne l'esecuzione
-   la   disposizione   censurata   minaccia   di  provocare  effetti
irreversibili  sul controllo dei reflui e sulla qualita' delle acque,
gravemente  minacciando  gli  interessi  pubblici  ambientali  che la
regione  ha  in  carico, sia pure non in via esclusiva, nonche' della
tutela  del  territorio  e  della  salute  umana, che rientrano nelle
competenze concorrenti fissate dall'art. 117, terzo comma, Cost.
    D)  Illegittimita'  costituzionale  degli  artt. 154  e  155, per
violazione degli artt. 117, comma quarto, 119 e 76 Cost.
    L'art. 154  istituisce la «Tariffa per il servizio idrico», quale
«corrispettivo  del  servizio  idrico integrato», e fissa i parametri
con  cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi
conto  «della  qualita'  della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle  opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione   delle  opere,  dell'adeguatezza  della  remunerazione  del
capitale   investito   e   dei   costi  di  gestione  delle  aree  di
salvaguardia,  nonche'  di una quota parte dei costi di funzionamento
dell'Autorita'  d'ambito,  in  modo  che  sia assicurata la copertura
integrale  dei  costi  di  investimento  e  di  esercizio  secondo il
principio  del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina
paga"».
    Di  seguito  la  disposizione  determina le competenze attuative,
attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
su  proposta  dell'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui
rifiuti, il compito di definire con decreto - «le componenti di costo
per  la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i
vari  settori  di  impiego  dell'acqua»;  al Ministro dell'economia e
delle  finanze,  di  concerto  con  il Ministro dell'ambiente e della
tutela  del territorio, «al fine di assicurare un'omogenea disciplina
sul  territorio  nazionale»,  il  compito  di  stabilire  «i  criteri
generali per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di
concessione  per  l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali  e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque   reimpiegando   le  acque  risultanti  a  valle  del  processo
produttivo  o  di  una  parte  dello stesso o, ancora, restituisca le
acque  di  scarico  con  le  medesime  caratteristiche qualitative di
quelle prelevate».
    Vengono  cosi'  previsti  diversi  poteri  normativi ministeriali
sovraordinati  a quello delle regioni, in violazione della competenza
legislativa  propria  spettante alle regioni a termini dell'art. 117,
quarto comma, della Costituzione.
    Sorprende  che  il  legislatore delegato abbia ignorato i rilievi
della  Commissione  della  Camera, che avvertiva dell'esigenza di non
ignorare  il  potere normativo regionale. A conferma della competenza
legislativa regionale va qui richiamata la sentenza di codesta ecc.ma
Corte  n. 335 del 2005, occasionata da un ricorso governativo avverso
la  legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004. In tale sentenza la
Corte - pur avendo affermato che il «tributo speciale per il deposito
in  discarica  dei  rifiuti  solidi»  benche'  devoluto alle regioni,
dovesse  ritenersi rientrante nella legislazione esclusiva in materia
di  sistema  tributario  e contabile dello Stato (salvo che la stessa
legge  statale  non  ne  rimandi la quantificazione alla regione), in
quanto  istituito  con  legge  dello  Stato,  in  base  alla costante
giurisprudenza  costituzionale  in  merito  al regime transitorio dei
tributi  (in  attesa  della  tanto auspicata attuazione dell'art. 119
Cost.)  -  ha  dichiarato invece inammissibile il ricorso governativo
contro  l'art. 47  della  suddetta  legge  regionale, che istituiva e
disciplinava  la  tariffa  relativa  al  servizio  integrato  ed alla
gestione  dei  rifiuti,  in  quanto il ricorrente non aveva ritrovato
basi argomentative sufficienti a suffragare la competenza statale.
    La  disposizione impugnata, al contrario, si ingerisce in materia
di  servizi  pubblici locali, riservata alla potesta' residuale delle
regioni (sentt. nn. 272/2004 e 29/2006), delineando una normativa che
per   di  piu'  si  profila  nel  merito  non  affatto  coerente  con
l'evoluzione della stessa legislazione statale: e' incomprensibile ad
esempio   l'omissione   tra   i  criteri  di  quanto  gia'  contenuto
nell'articolo 13 della legge n. 36/1994, concernente la necessita' di
tener  conto  «degli  obiettivi di miglioramento della produttivita».
Una  tale  carenza  - rinunciando all'utilizzo di uno degli strumenti
piu'  efficaci  per  favorire  il miglioramento dell'efficienza delle
gestioni,  ovvero  della  leva tariffaria configura una tariffa priva
del   controllo   sui   costi   di   gestione  e  puo'  implicare  il
riconoscimento  a  pie  di  lista  dei  costi  operativi del gestore,
eliminando  il  miglioramento  progressivo  in  termini di efficienza
previsto dalla normativa precedente.
    Tali  norme  violano  il  riparto  della potesta' legislativa tra
Stato  e  regioni,  fissato  dall'art. 117  (e,  in  particolare,  la
competenza  residuale  ex  art. 117,  quarto  comma,  in  materia  di
disciplina  dei servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e
tributaria  delle  regioni,  garantita  dall'art. 119,  comma primo e
secondo,  Cost.,  in  quanto incidono su un'entrata la cui disciplina
ricade nella competenza regionale.
    Inoltre,  le  norme  impugnate  contrastano  anche con gli stessi
criteri  della  delega  legislativa,  almeno la' dove essa vincola il
legislatore  delegato:  a)  al  rispetto  «delle  attribuzioni  delle
regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'articolo 117
della  Costituzione,  della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo  31  marzo  1998,  n. 112  (art.  1,  comma  8);  b) allo
«sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure
e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari
o   fiscali,   volti   a  sostenere,  ai  fini  della  compatibilita'
ambientale,  l'introduzione  e  l'adozione  delle migliori tecnologie
disponibili,  come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre
1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e
a  rendere  piu'  efficienti  le  azioni di tutela dell'ambiente e di
sostenibilita'  dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici,
finanziari  e  fiscali» (art. 1, comma 8, lett. d); mentre, per altro
verso,  essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega,
non  essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in
questione. A giustificare la richiesta di sospensione dell'esecuzione
della  disposizione  in  questione  milita  un argomento evidente: la
norma  impugnata  tenderebbe  a sostituirsi alla disciplina regionale
sulla  tariffa  relativa  al  servizio integrato ed alla gestione dei
rifiuti,  interrompendo  la  sperimentazione  avviata  e  ingenerando
incertezza  rispetto  agli  oneri  tributari  da assolvere, con grave
danno  per  la  certezza dei rapporti giuridici e per i bilanci degli
enti  coinvolti.  Per  le  stesse ragioni appare illegittimo altresi'
l'art. 155, in relazione alla quota di tariffa riferite ai servizi di
fognatura e di depurazione.
    E)  Illegittimita'  costituzionale delle norme impugnate per vizi
procedurali  che  inficiano  l'intero decreto legislativo. Violazione
della legge di delega e del principio di leale collaborazione.
    Nel  suo  complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento,   attinenti   in   particolare  alla  violazione  della
procedura di «leale collaborazione». Come emerge da quanto esposto in
narrativa,  infatti,  il Governo non ha rispettato i contenuti minimi
della  garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha
richiesto  il  parere  della  Conferenza in termini temporali tali da
renderne  impossibile  l'espressione,  ed  ha  rifiutato la legittima
richiesta  di  disporre  del  tempo  necessario  allegando ragioni di
urgenza  inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei
mesi  piu'  tardi  -  e persino inducendo in errore (non si vuole qui
dire  volontariamente)  la  Conferenza  circa  gli  effettivi termini
temporali  della  delega.  Si  noti  che l'ordine del giorno negativo
successivamente   approvato   dalla   Conferenza   non   puo'  essere
considerato  un  equivalente di un parere effettivamente articolato e
reso  nel  merito a seguito di un corretto procedimento: ma del resto
neppure esso e' stato effettivamente preso in considerazione.
    La   Conferenza   unificata   non  ha  avuto  modo  di  esprimere
formalmente  il  proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in
merito  al  decreto  legislativo  il  Governo  non  ha  aperto alcuna
discussione,  violando  quanto  disposto  dalla  legge  di  delega  e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma
3,   del   decreto  legislativo  n. 281/1997,  quando  la  Conferenza
Stato-regioni e' obbligatoriamente sentita («in ordine agli schemi di
disegni  di  legge  e  di  decreto  legislativo  o di regolamento del
Governo  nelle  materie  di competenza delle regioni o delle province
autonome  di  Trento  e  di  Bolzano») essa «si pronunzia entro venti
giorni».  Per l'espressione del parere della Conferenza unificata non
e' indicato un termine preciso, ma certo non si puo' ritenere che per
essa  che  ha  una  struttura  ancora  piu'  complessa della «Stato -
regioni» - possa valere un termine ancora piu' breve.
    Se  la  legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di
acquisire  il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di
un   termine   adeguato.   Ma   tutto  il  comportamento  tenuto  dai
rappresentanti  del  Governo in questa vicenda - in una vicenda cosi'
complessa  sotto  il profilo tecnico-normativo e tanto delicata per i
molteplici  riflessi  che il «Codice dell'ambiente» esercita non solo
sulle   attribuzioni   «in   astratto»   delle   regioni,   ma  sulla
legislazione,  a  sua  volta  complessa  e articolata, che esse hanno
prodotto - e' improntato ad uno spirito autoritario e ostruzionistico
che e' in palese con i canoni della leale collaborazione.
    Quando  si  abbia  a  che  fare  con competenze necessariamente e
inestricabilmente  connesse  -  ha  osservato  codesta  ecc.ma  Corte
costituzionale - il principio di «leale collaborazione» - che proprio
in  materia  di  protezione  di  beni  ambientali  e  di  assetto del
territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede
la  messa  in  opera  di  procedimenti  nei  quali  tutte  le istanze
costituzionalmente  rilevanti possano trovare rappresentazione (sent.
n. 422/2002).  E'  vero che tale principio e' «suscettibile di essere
organizzato  in  modi  diversi,  per  forme  e  intensita'  della pur
necessaria  collaborazione»  (sent.  308/2003),  ma e' anche vero che
esso non puo' essere ridotto ad una ritualita' meramente formale: una
delle  «sedi  piu' qualificate per l'elaborazione di regole destinate
ad  integrare  il parametro della leale collaborazione e' attualmente
il sistema delle Conferenze Stato-regioni e autonomie locali», al cui
interno   «si   sviluppa  il  confronto  tra  i  due  grandi  sistemi
ordinamentali  della  Repubblica,  in  esito  al quale si individuano
soluzioni concordate di questioni controverse» (sent. 31/2006). Ma di
«confronto» deve trattarsi, appunto, basato su comportamenti corretti
e  «leali»  delle  parti,  non  dell'imposizione  unilaterale e della
chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo.
    Tale  violazione  della  legge  di  delega (e dunque dell'art. 76
Cost.)   e   del  principio  di  leale  collaborazione  si  traducono
direttamente in lesione delle competenze e prerogative costituzionali
delle  regioni, e costituiscono percio' illegittimita' costituzionali
che le regioni sono legittimate a fare valere.
    Sulla richiesta di sospensione delle norme impugnate.
    Come  esposto  in  premessa, il presente ricorso e' presentato in
via  di  urgenza  avverso  solo alcune delle disposizioni del decreto
legislativo  n. 152  del  2006  che  la  ricorrente  regione  ritiene
illegittime ed invasive, e con riserva di far valere l'illegittimita'
costituzionale di altre norme dello stesso decreto mediante ulteriore
separato  ricorso  presentato nei termini di impugnazione, allo scopo
di potere presentare a codesta ecc.ma Corte costituzionale tempestiva
richiesta di sospensione delle norme qui impugnate
    Le  ragioni  per  tale  richiesta sono state puntualmente esposte
nelle   relative   argomentazioni   in  diritto.  Qui  si  puo'  solo
sinteticamente  aggiungere  che  tali  ragioni  consistono  - secondo
quanto  richiesto  dall'art. 9  della  legge  n. 131  del  2003 - nel
pericolo di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico, e nel
rischio  di  un  pregiudizio  grave ed irreparabile per i diritti dei
cittadini.  Tale pericolo e' connesso alla distruzione del patrimonio
di  buona  amministrazione  dovuto  al  sovrapporsi  -  a volte senza
neppure  un  minimo  di  norme  transitorie  -  dei nuovi illegittimi
istituti  a  quelli  legittimamente  da  anni  messi  in  atto  dalla
ricorrente  regione,  nel pieno rispetto dei vincoli costituzionali e
legislativi.  Cio'  sia  in riferimento alla soppressione inopinata e
repentina  delle  Autorita' di bacino, sia in relazione alla gestione
dei  rifiuti,  sia in relazione al sistema tariffario per il servizio
idrico.
    Vi  e'  dunque  il rischio che - se pure le illegittimita' che la
Regione  Abruzzo  lamenta  venissero nel corso del tempo rimosse - il
loro provvisorio vigore produca quel danno irrimediabile cui solo una
tempestiva misura cautelare potrebbe rimediare.